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Il regista Dario Jurilli: «Nei cinema ruvesi la storia della mia famiglia e della mia vita»

Sensibile, raffinato eppure appassionato quando racconta della genesi del documentario “Un popolo di donne in viaggio”, proiettato a Ruvo di Puglia in Pinacoteca Comunale lo scorso 27 settembre, durante la “Festa della Lettura e dei Lettori” dedicata ad Alessandro Leogrande. E’ il regista ruvese Dario Jurilli, classe ’83, fondatore del cineclub Drive In a Ruvo di Puglia, che coi suoi progetti (www.dariojurilli.com) si divide tra Bari, Roma e Berlino.

Jurilli narra della sua vita, del suo amore per il cinema, un’eredità di suo nonno, Pasquale, la cui vita è strettamente legata a tre cinema che un tempo hanno fatto sognare, ridere, piangere, tremare i ruvesi: il “Vittoria”, il “Politeama” e il “Giardino”. Leggere la sua narrazione è un viaggio emozionale nella Ruvo di Puglia di un tempo, nell’Europa e nel mondo.

«Ricordo alcune proiezioni estive – racconta il giovane regista – durante i campeggi di fine agosto coi miei genitori e i miei nonni nel Salento, quando ero piccolo, e quei primi film visti su tende bianche issate tra gli alberi…Ricordo le panche e di aver visto “Mediterraneo” e “Nuovo Cinema Paradiso”, ma qui la storia si confonde coi racconti che mio padre ci faceva di suo padre, mio nonno Pasquale: il primo a illuminare di luce elettrica il cimitero e le processioni della Settimana Santa; il primo a illuminare la scuola ‘Bovio’ e a installare un gruppo elettrogeno per dare luce al Parco del Conte. E’ stato il manutentore dell’orologio di Piazza Menotti Garibaldi e degli stabilimenti vinicoli e oleari del paese.

Ma soprattutto è stato il proiezionista, per decenni, del Cinema Politeama, dopo essere passato a vario titolo per gli altri due cinema della città. il “Vittoria” e  il “Giardino”. Ma il Politeama è stato qualcosa di più: un mito nella microstoria culturale di Ruvo di Puglia e nella storia della mia famiglia paterna.

E’ stato un nuovo “Cinema Paradiso” ruvese nato con le speranze del dopoguerra, con tetto apribile a far piovere le stelle sulle teste degli spettatori nelle calde sere d’estate;  palcoscenico per l’avanspettacolo e anche per compagnie di tutto rispetto che riempivano le sere senza TV dei nostri nonni. Lì ogni sera passava un film diverso, di modesta qualità (“re ppurghe”, per gli spettatori abituali), ma dal venerdì alla domenica esplodeva la cinefilia dell’intera comunità cittadina che consacrava la fortuna dei “pepla”, film della Roma guerriera e imperiale – un retaggio della cultura cinematografica fascista -; di Totò, di Ciccio Ingrassia e Franco Franchi; delle avventure erotico-cavalleresche in cappa e spada, e degli Ercole, dei Maciste e dei Kung Fu. E qui il racconto di mio padre correva parallelo alle immagini di Alfredo e Totò di Nuovo Cinema Paradiso: con i film furtivamente rapiti dall’oblò della caldissima cabina di proiezione; con le cene strette nella ‘mappina’ perché arrivassero ancora calde sulla sedia di mio nonno, tutti i giorni dell’anno, festivi compresi.

Queste storie le ho poi risentite, raccontate da ruvesi coetanei di mio padre che incontrandomi e venendo a sapere che avevo aperto –  forse per un’inconscia nemesi dell’abbattimento del Politeama – il “Drive In” a Ruvo di Puglia mi rivelavano: “Conoscevo tuo nonno, Meste Pasquale, sempre in tuta”. E qualcuno ricordava anche come, proprio nascondendosi dietro quella tuta, riusciva a entrare gratis nel cinema, evadendo le 50 lire del biglietto, cifra impossibile per famiglie di sei e sette figli del dopoguerra. Da queste memorie viene mio amore per il cinema, che poi accoglie le passioni di me adulto: musica, fotografia, pittura e parola. Penso alla sua forza misteriosa, alla sua capacità di raccontare storie, di evocare, di entrare in contatto col pre-verbale, con l’ inconscio, con il misterioso e con i sogni; penso alla sua capacità di generare visioni e di rendere l’immaginazione, di illuminare l’invisibile, di stupire, di scansionare e rileggere la realtà».

Erediti questo amore e lo fai risplendere nel tuo percorso professionale. Quando è iniziato tutto?

«Devo alla fiducia di mio padre se ho un occhio per i film: infatti, mi ha affidato la sua Pentax k1000, una macchina fotografica analogica con cui ho cominciato a fare i primi scatti a 8 anni e mi ha lasciato anche provare le sue Hi8.

Poi ho iniziato a girare i miei primi lavori a 15 anni, ho iniziato a usare le prime camere digitali che permettevano di montare e finalizzare senza costi. In quegli anni ho imparato a montare l’audio e il video e passavo molti dei miei pomeriggi al cinema Elia a Corato.

Terminato il liceo, sono partito per Roma, la città del cinema che identificavo in Fellini e nei maestri francesi e sede del Centro Sperimentale di Cinematografia, una gloriosa scuola del 1936, aperta a pochissimi studenti in cui era però possibile imparare gratuitamente il mestiere del cinema. E allora sono partito per Roma, ho fatto l’università, che era necessaria per poter entrare nella scuola, ho fatto un Erasmus a Parigi e sono tornato in Italia per il concorso di ammissione e, dopo mesi di selezione, ho potuto frequentare i corsi di regia».

Come sono stati questi anni romani?

«Sono stati anni di grande studio, di proiezioni nella sala Trevi della cineteca; di grandi scoperte; di incontri con maestri e amici a cui sono ancora molto legato. E’ stato un tempo in cui ho avuto modo di esplorare la realtà e renderla il centro del mio interesse cinematografico, producendo un mockumentary d’inchiesta La mia famiglia è magica e immensa. Storia di Erika e Omar e un cortometraggio sulle periferie romane a cui sono molto legato, Due Bambine. Infine, un film ai confini della realtà e che si avventura  verso i sogni e la Science Fiction, Dimmi Cosa Vedi.

Dopo la scuola, grazie a Principi attivi, sono tornato per un po’ a casa e ho fondato a Bari una unità di produzione cinematografica, “Dimmi cosa vedi Lab”. Realizziamo campagne per il sociale, videoarte, video musicali, e produciamo documentari sulle realtà urbane del paese, cortometraggi e film di finzione come Da che parte stai.

Con l’intento di incoraggiare la formazione di un pubblico più consapevole dei processi creativi e del valore delle opere, “Dimmi Cosa vedi Lab” da subito affianca alla propria vocazione produttiva una missione distributiva e aggregativa e avviamo un attività di formazione e fidelizzazione del pubblico fondando a Ruvo di Puglia il cineclub Drive In».

E veniamo al Drive In, appunto, uno dei punti di riferimento dei cinefili ruvesi…

«La città, tra la fine degli anni ’90 e i primi anni 2000, era rimasta senza cinema dopo l’eroica resistenza del Vittoria. Dieci anni dopo, il Drive In riportava a Ruvo di Puglia uno schermo cinematografico come dimensione di scambio e arricchimento  e i film come guida e spunto per la formazione di un rinnovato vocabolario affettivo della comunità.

Proponendo rassegne, incontri e percorsi e una fitta programmazione settimanale, con oltre 500 proiezioni, in tre anni, svolge la sua mission di ri-alfabetizzazione emotivo-cinematografica, gettando le basi per la sua visione di città attenta, capace di costruire, offrire e fruire di spazi e contenuti culturali, con il mai sopito desiderio di riaprire, un giorno non lontano, quel grande cinema cittadino. In questo periodo, nasce  in me un’ altra vocazione, quella del documentario, che mi porta a tornare a Roma prima e a Berlino poi. E qui, ancora una volta, torna in gioco la vocazione cinematografica della mia famiglia, cui affido il cineclub: mio padre ne cura la programmazione di letteratura e cinema e gli incontri con studiosi dell’Università; mia madre e mia sorella Silvia si occupano di organizzazione e gastronomia. Tutti supportati dai  miei storici amici  Antonello, Domenico, Mariangela e Monica».

 Vivi a Berlino: cosa ti affascina della città degli angeli Damiel e Cassiel, protagonisti di un celeberrimo film di Wenders?  

«In realtà credo che anche questa cosa sia antica. Avevo sei anni quando cadde il Muro di Berlino (9 novembre 1989, ndr). Ricordo questa città in festa, rinata dopo lunghissime sofferenze. Sicuramente è rimasto in me il ricordo di una città che si ritrovava per darsi una nuova identità, poi negli anni sempre nuove tracce mi hanno spinto verso di essa. Quando nel 2013 scelgo Berlino, lo faccio perché  in meno di cento anni ha vissuto la monarchia, il nazismo il comunismo e il capitalismo; perché è un punto di vista privilegiato sul mondo e sulla storia recente; perché è la città dei Teatri di Piscator e di Brecht, e per il suo interessante panorama musicale. Inoltre a portarmi qui è una  borsa di studio del DAAD che sostiene il mio attuale progetto di ricerca dedicato alle sinfonie urbane, dal momento che la città era stata teatro di esperimenti cinematografici di cui voglio seguire le tracce realizzando, appunto, il mio documentario “Berlin, Sinfonie”. Poi è una città pacifica e silenziosa, in cui c’è un rispetto diffuso per gli artisti, considerazione per il loro lavoro e il loro ruolo sociale, e ci sono pratiche diffuse di vita sostenibile in cui solidarietà e integrazione sono valori centrali».

Parli di convivenza e solidarietà e mi viene in mente il documentario  “Un popolo di donne in viaggio”, nel quale tu e le donne di cui hai narrato avete condiviso emozioni pure che si sono rivelate in una canzone, nella descrizione di un piatto, nei sogni, illusioni, speranze.

«Anche in Germania, in questi mesi, radio e telegiornali non fanno che ripetere discorsi polverosi atti a creare paura e confusione ma una delle cose belle del lavoro del filmmaker è che è un lavoro di indagine che ti porta a vedere il più chiaro possibile, ti invita a un approccio che ti porta a stare in ascolto alla ricerca delle fonti alla ricerca di una verità che sta nelle storie, nelle cose e nelle persone.

Un discorso sulla migrazione era un discorso difficile da iniziare e sono grato a tutte le donne di Corpi Migranti perché attraverso loro sono riuscito a rendere visibile e chiaro a me stesso prima di tutto il mio pensiero e il mio sentire. Ho trovato un pensiero semplice come semplici sono i loro racconti, come semplice è il parlare e l’ascoltarsi, comprendersi dentro un’emozione. E un riempirsi di emozioni è stata la sera della proiezione, sullo schermo e nel luogo del Drive-in, in presenza delle ‘assessoresse’, come io le chiamo (Monica Filograno e Monica Montaruli, ndr), reincontrate dopo molti anni di percorsi diversi ma di tracce comuni; di Clarissa Veronico di Punti Cospicui, cui sono legato da un bellissimo rapporto professionale e da un sentimento fraterno e con cui ho intrapreso questo viaggio nelle storie di migrazione. E c’erano Sophie e Mirela, due delle donne che erano state compagne di questo viaggio. E poi i miei amici, mia nonna e i miei nipotini e il pubblico del Drive In con cui ho continuato un discorso aperto da anni che si arricchiva di parole raccolte in un film. Parole semplici, che ci portano al cuore di un argomento su cui la retorica della paura a cui siamo abituati, fondata sul dogma dello straniero come nemico, si scioglie come neve al sole di fronte a una realtà tangibilmente diversa. Ringrazio le donne di Corpi Migranti per la loro generosità e la fiducia nel riporre le loro confessioni.

È stato emozionante così tanto da farmi fuggire di mente una cosa che qui posso aggiungere: una poesia che racchiude molto del percorso di Corpi migranti e il mio in questi anni. È di  Majakovskij: “Imparentati con tutto quello che esiste…convincendosi e frequentando il futuro nella vita di ogni giorno non potremo alla fine non cadere come in una eresia in una incredibile semplicità”».

Un pensiero su un tema connesso alle migrazioni di scottante attualità: caso Mimmo Lucano.

«Su Mimmo Lucano, dico che anche io vorrei andare a Riace (ora non più SPRAR, ndr) e vorrei guardare con i miei occhi il miracolo compiuto da un uomo e da una comunità che ha permesso che tornassero a vivere case in disuso, messe a disposizione per immigrati da altri migranti, gli stessi migranti economici italiani che sono stati accolti in Sud America e in Australia, italiani che in quell’ Italia non ce l avevano fatta. E vorrei andare a vedere questo esempio di solidarietà umana che rimette la vita al centro, dando sostegno a un uomo che oggi è fuorilegge per aver fatto carte d identità a chi avrebbe dovuto avere documenti per diritto e in tempi brevi. Un fuorilegge costretto al delitto dal suo senso di umanità, dalla necessità di salvare vite, un fuorilegge perché davanti alle cattive leggi e alla cattiva politica per resistere bisogna passare alla disobbedienza civile. La domanda che mi viene in mente è: “Si può, in questo Paese, continuare a seguire delle norme morali senza diventare dei fuorilegge?”. Ed è una cosa che riguarda tutti perché come diceva Bertolt Brecht: “Quando l’ingiustizia diventa legge, la resistenza civile diventa dovere”».

 E si può resistere anche con una cinepresa, come dimostra Jurilli per il quale un bravo filmaker deve osservare e «scassare», sconvolgere coscienze assopite e far riflettere.

(Foto © Dario Jurilli)

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