Agricoltura

ETICHETTATURA PASTA E POMODORO SALVA 1/3 AGRICOLTURA PUGLIESE DA FRODI E INGANNI

L’arrivo dell’etichettatura per la pasta e tutte le conserve di pomodoro salva 1/3 dell’agricoltura pugliese dai prodotti agroalimentari importati dall’estero e spacciati per made in Italy, come il grano dal Canada e il concentrato di pomodoro cinese, usati per fare pasta e derivati del pomodoro tricolori. Le produzioni di oltre 380mila ettari sul totale di 1,2 milioni sarà riconoscibile sul mercato dall’etichettatura d’origine.

“Nel 2016 sono stati importati dalla Cina 91 milioni di chili di conserve di pomodoro – ha detto il presidente nazionale di Coldiretti, Roberto Moncalvo, intervenendo a Bari al convegno alla Fiera del Levante – che, riportato al fresco, significano attorno al 20% della produzione nazionale, prodotto che viene, poi, spacciato nel mondo come italiano per la mancanza di un sistema di etichettatura di origine obbligatorio, e ciò nonostante provenga da uno dei paesi più insicuri del mondo e irrispettoso degli stessi standard ambientali e sociali adottati nel nostro Paese. L’annuncio del Ministro Martina per arrivare all’obbligo di indicare la provenienza in etichetta è una giusta risposta alla battaglia che da tempo combattiamo”. L’Italia – ricorda la Coldiretti – è il principale produttore europeo di grano duro, destinato alla pasta con 4,8 milioni di tonnellate su una superficie coltivata, pari a circa 1,3 milioni di ettari, ma sono ben 2,3 milioni di tonnellate di grano duro che arrivano dall’estero e di queste oltre la metà per un totale di 1,2 milioni di tonnellate arrivano dal Canada. “Un pacco di pasta su tre è fatto con grano straniero – ha continuato Moncalvo – senza indicazione in etichetta dell’origine che oltre il 96% degli italiani chiedono ed hanno il diritto di conoscere. Con la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale del decreto interministeriale che la rende obbligatoria, fortemente sostenuto dalla Coldiretti, ci sarà finalmente trasparenza su un elemento di scelta determinante con l’Italia che si candidata a svolgere un ruolo da apripista nelle politiche comunitarie a sostegno della qualità. Una premessa importante per condurre una battaglia anche a livello internazionale contro l’accordo di libero scambio con il Canada (CETA), da dove arriva più della metà del grano duro straniero coltivato con l’impiego di prodotti chimici come il glifosate in preraccolta vietato in Italia”.

Ma il fenomeno delle agromafie è così in crescita che “senza un adeguato apparato di regole penali e di strumenti in grado di rafforzare l’apparato investigativo – ha affermato ancora il presidente della Coldiretti – l’enorme sforzo messo a punto dalla macchina dei controlli apparirà sempre insufficiente” e proprio per questo “bisogna al più presto portare all’esame del Parlamento il testo della Commissione Caselli per la riforma dei reati agroalimentari”, valutando anche l’ipotesi di un decreto-legge. “Per l’alimentare – ha detto ancora Moncalvo – occorre vigilare sul sottocosto e sui prodotti low cost, dietro i quali spesso si nascondono ricette modificate, l’uso di ingredienti di minore qualità se non l’illegalità o lo sfruttamento”, così come per le importazioni “occorre stringere le maglie larghe della legislazione, a partire dall’obbligo generalizzato di indicare in etichetta la provenienza degli alimenti e di rendere pubblici gli elenchi delle aziende che importano da Paesi extracomunitari”.

La Commissione ministeriale di studio per l’elaborazione di proposte di intervento sulla riforma dei reati in materia agroalimentare presieduta dall’ex procuratore Gian Carlo Caselli, presidente dell’Osservatorio sulla criminalità nell’agricoltura e sul sistema agroalimentare, ha consegnato una proposta normativa di riforma sulla tutela dei prodotti alimentari che si incentra sul consumatore finale e mira ad adeguare un quadro normativo oramai obsoleto.

A Bari in Puglia le fattispecie criminose più significative sono costituite dalla sofisticazione  – soprattutto dell’ortofrutta e dell’olio –  ma si assiste anche ad una escalation di furti nelle campagne di mezzi agricoli, prodotti, fili di rame e tutto quanto inibisce il sano svolgimento dell’attività agricola nelle aree rurali. E’ emerso, tra l’altro come il fenomeno delle agromafie, nel corso degli ultimi cinque anni, abbia accresciuto la propria intensità in particolar modo in Puglia (Bari: 1,39%; Taranto: 1,30%; Barletta-Andria- Trani: 1,27%). Palma nera alla provincia di Bari, rientrata a pieno titolo nella top ten della graduatoria che fotografa l’intensità del fenomeno delle agromafie nelle province italiane. Si piazza al decimo posto, seguita a ruota da Taranto al 15esimo, la provincia di Barletta-Andria-Trani al 18esimo posto, Lecce al 28esimo, Brindisi e Foggia rispettivamente al 46esimo e 47esimo posto. I ruoli si invertono se ad essere fotografato è l’indice di permeabilità delle agromafie che raggiunge 100 a Foggia, 66,80 a Brindisi, 44,75 nella BAT, 34,56 a Taranto, 30,75 a Bari e, infine, 25,94 a Lecce.

La Puglia è una regione a forte rischio – continua Coldiretti – ed è al terzo posto della classifica nazionale, con un livello di infiltrazione criminale pari all’1,31%, preceduta solo da Calabria (2,55%) e Sicilia (2,08%). Il settore agroalimentare, che ha dimostrato in questi anni non solo di poter resistere alla crisi, ma di poter crescere e rafforzarsi anche in un quadro congiunturale complessivamente difficile, è diventato di conseguenza ancor più appetibile sul piano dell’investimento. La capacità di attrazione dei capitali legali da parte della malavita è ben evidenziata dall’attività della Guardia di Finanza che fa notare come le mafie non limitano la loro attività solo all’accaparramento dei terreni agricoli, ma spaziano in tutto l’indotto, arrivando a operare direttamente nelle attività di trasporto e di stoccaggio della merce, nell’intermediazione commerciale e nella determinazione dei prezzi.

Il volume d’affari complessivo annuale dell’agromafia è salito a 21,8 miliardi di euro con un balzo del 30% nell’ultimo anno. Il rapporto evidenzia che tale stima rimane, con tutta probabilità, ancora largamente approssimativa per difetto, perché restano inevitabilmente fuori i proventi derivanti da operazioni condotte “estero su estero” dalle organizzazioni criminali, gli investimenti effettuati in diverse parti del mondo, le attività speculative poste in essere attraverso la creazione di fondi di investimento operanti nelle diverse piazze finanziarie, il trasferimento formalmente legale di fondi attraverso i money transfer in collaborazione con fiduciarie anonime e la cosiddetta banca di “tramitazione”, che veicola il denaro verso la sua destinazione finale. La filiera del cibo, della sua produzione, trasporto, distribuzione e vendita, ha tutte le caratteristiche necessarie per attirare l’interesse di organizzazioni che via via abbandonano l’abito “militare” per vestire il “doppiopetto” e il “colletto bianco”, come si diceva un tempo, riuscendo così a scoprire e meglio gestire i vantaggi della globalizzazione, delle nuove tecnologie, dell’economia e della finanza 3.0.

Nel 2016 si è registrata un’impennata di fenomeni criminali che colpiscono e indeboliscono il settore agricolo nostrano dove quasi quotidianamente ci sono furti di trattori, falciatrici e altri mezzi agricoli, gasolio, rame, prodotti (dalle mandorle all’uva, dall’olio al vino) e animali con un ritorno prepotente dell’abigeato. Non si tratta più soltanto di “ladri di polli” quanto di veri criminali che organizzano raid capaci di mettere in ginocchio un’azienda, specie se di dimensioni medie o piccole, con furti di interi carichi di olio o frutta, depositi di vino o altri prodotti come file di alveari, intere mandrie o trattori caricati su rimorchi di grandi dimensioni.

“In Puglia sono 6.057 i terreni sequestrati alle mafie – ha denunciato il presidente di Coldiretti Puglia, Gianni Cantele – il 20,4% dei 29.689 sparsi in tutta Italia, anche perché il processo di sequestro, confisca e destinazione dei beni di provenienza mafiosa si presenta lungo e confuso, spesso non efficace e sono numerosi i casi in cui i controlli hanno rilevato che alcuni beni, anche confiscati definitivamente, sono di fatto ancora nella disponibilità dei soggetti mafiosi. Così vengono sprecati tra i 20 ed i 25 miliardi di euro per il mancato utilizzo dei beni confiscati sulla base delle stime dall’Istituto nazionale degli amministratori giudiziari (Inag). In Puglia, dunque, vanno inutilmente in fumo tra l’1,9 e i 2,37 miliardi di euro a causa di inadempienze, procedure farraginose, lungaggini burocratiche. I criminali che non vengono sgomberati dagli immobili godono persino del vantaggio di non dover pagare le tasse sul bene, poiché sequestrato. Senza dimenticare che i beni di fatto non riutilizzati, anche quando non sono più direttamente a disposizione dei soggetti mafiosi, comunicano all’esterno il permanere del loro controllo sul territorio. Sarebbero, invece, strumenti di avvio e consolidamento delle attività agricole, gestite da giovani agricoltori e dalle cooperative che si occupano attivamente di agricoltura sociale”.

Nei primi 6 mesi del 2016 il Consiglio Direttivo dell’ANBSC (Associazione Nazionale per l’Amministrazione la Destinazione dei Beni sequestrati e Confiscati alla criminalità) ha deliberato la destinazione di 140 terreni, di cui ben il 48% ubicato in Puglia, secondo quanto riportato dal 5° rapporto ‘Agromafie’ di Coldiretti, Osservatorio sulla Criminalità nell’agricoltura e sul sistema agroalimentare ed Eurispes.

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